Talenti IT: ecco come i CIO curano l’engagement e la retention

Carenza di competenze IT: anche nel 2024, i talenti della tecnologia, soprattutto con skill avanzate e specialistiche, restano difficili da trovare. Fa fatica il 54,6% delle società IT in Italia, contro la media globale del 47,3%, mentre i nostri pari europei vivono situazioni simili (in Spagna è difficile per il 52,9% delle aziende IT, in Francia per il 51,2% e in Germania per il 50,6%), come emerge dal report “IT Global HR Trends” realizzato da Gi Group, in collaborazione con il Politecnico di Milano e Intwig Data Management. Nelle imprese non-IT attrarre talenti è ancora più complicato, perché i candidati cercano di preferenza aziende con una forte vocazione digitale per esprimere al massimo il proprio potenziale. Ovunque, fidelizzare le risorse con competenze tecnologiche è una sfida: tutti gli IT Director italiani riferiscono un alto turnover.

Il Barometer “Sfide e competenze per i dipartimenti e i team IT”, studio internazionale condotto da Cegos (player internazionale nel Learning & Development), mette in luce esattamente questo aspetto. Il 53% dei 200 Direttori o Responsabili dei Sistemi Informativi interpellati nel nostro Paese dichiara di dover quotidianamente far fronte alla difficoltà di attrarre e trattenere talenti IT. La cybersecurity è il “problema informatico” più rilevante (punteggio: 8,7), ma il 53% dei CIO italiani si sente fiducioso di riuscire ad affrontarlo; di converso, di fronte alla difficoltà di attrarre e assumere i talenti IT (secondo maggior problema informatico con un punteggio di 8,2) appena l’8% pensa di riuscire a superare la sfida. Lo sviluppo delle competenze del team IT e la fidelizzazione dei talenti IT sono, rispettivamente, il terzo e il quarto maggior problema informatico per i CIO in Italia, e solo il 24% e il 9%, rispettivamente, pensa di poterlo fronteggiare con successo.

“I talenti non sono rari: ci sono, ma non vengono valorizzati, ed è per questo che, sempre più spesso, preferiscono andare all’estero”, afferma Cecilia Colasanti, CIO di Istat, l’Istituto nazionale di statistica. “Per me il talento è la persona giusta al posto giusto. Il manager, compreso il Chief Information Officer, deve avere la capacità di riconoscere i talenti, far loro capire che sono stati individuati e valorizzarli con le giuste opportunità”.

Il CIO protagonista della gestione dei talenti: l’engagement

Nominata CIO nell’ottobre del 2023, Colasanti ha le idee molto chiare su come gestire i suoi talenti per creare un gruppo coeso e motivato. “L’obiettivo che mi sono posta come Chief Information Officer è stato quello di rilasciare prodotti sempre più di qualità per l’utenza statistica, sia interna che esterna. Voglio essere concreta e chiudere i progetti che abbiamo aperto, far sì che l’ente continui a migliorare, grazie anche al contributo dell’IT”, aggiunge la manager. “L’IT non solo sostiene il core business dell’ente, ma è, oggi più di sempre, driver della produzione statistica. Come CIO sento di avere il compito di migliorare complessivamente la funzione IT dal punto di vista dell’organizzazione, della qualità dei prodotti rilasciati, della rilevanza della Direzione, comunque già riconosciuta come strategica, e del benessere delle persone”.

La Direzione IT di Istat (DCIT, Direzione Centrale per le Tecnologie Informatiche, suddivisa nei tre servizi: “Gestione infrastruttura IT”, “Progettazione Sviluppo e Gestione dei Sistemi Applicativi” e “Sviluppo e gestione tecnologie a supporto dei registri e delle basi dati”) conta al momento 195 persone, inclusa la CIO, e rappresenta il 10% circa dell’intero personale dell’istituto. Il primo passo di Colasanti dopo la nomina è stato quello di incontrare personalmente tutte le risorse assegnate alla Direzione per un colloquio.

“Lavoro in Istat dal 2001 e ci conosciamo quasi tutti. Ho ricoperto prima vari ruoli in questa direzione informatica e dal 2020 sono stata Data Protection Officer di Istat. Nella nuova veste di CIO, ci tenevo ad ascoltare ciascuno singolarmente per raccogliere il punto di vista di ognuno. In sei mesi li ho convocati tutti, appuntandomi per ciascuno i principali contenuti del nostro scambio”, prosegue la manager. “Proprio perché ci conosciamo personalmente, sento che i miei colleghi hanno una forte aspettativa circa il nostro lavoro insieme. Per questa ragione sto cercando di instaurare un dialogo franco, evitando ambiguità. Ho tuttavia chiarito fin dall’inizio che ascoltare non significa delegare le responsabilità delle decisioni. Accolgo alcune proposte, ne respingo altre, cercando di motivare le scelte, nei limiti di quanto possibile”.

Un’altra mossa della CIO appena insediata è stata riprendere l’iniziativa “Due problemi due soluzioni”, lanciata in Istat molti anni fa dall’allora Presidente Enrico Giovannini. Colasanti ha chiesto al personale DCIT, su base volontaria, di individuare, appunto, due problemi e di proporre due soluzioni. Ha poi personalmente elaborato il materiale pervenuto e ha condiviso i risultati in un incontro in presenza, a 90 giorni dal suo insediamento, cui hanno partecipato circa 130 colleghi, due terzi del totale. La CIO ha commentato le proposte, valutando insieme quelle a cui dare seguito, oppure quelle su cui riflettere, impegnandosi sul follow-up. Un peso importante hanno avuto le proposte di alcuni colleghi di maggiore esperienza: “veterani” li ha definiti, che hanno avanzato ipotesi molto valide.

“Mi sono esposta molto con questa iniziativa”, tiene a precisare la CIO, “ma credo anche che sia stato un modo efficace per cementare il rapporto di fiducia con i miei colleghi”.

Alcune delle richieste ricevute dal personale IT riguardano le possibilità di carriera. I punti dolenti emersi più di frequente sono stati la comunicazione interna e la carenza di personale, mentre qualcuno ha sollevato qualche problema di ordine tecnico. Colasanti ha colloquiato con tutti, chiarendo su quali punti può agire e su quali no: i percorsi di carriera e le assunzioni, per esempio, nel settore pubblico seguono iter precisi, su cui si può incidere poco.

“Ho cercato di affrontare tutte le questioni in un’ottica propositiva. Laddove ho percepito, per contro, una generica resistenza al cambiamento più che un reale problema, ho tentato di puntare sulla motivazione intrinseca per chiedere l’impegno delle persone”, sottolinea. “È importante spiegare le strategie dell’ente e qual è il ruolo di ciascuno nel raggiungimento degli obiettivi: le persone hanno bisogno, e diritto, di conoscere il contesto nel quale operano e essere consapevoli di come il loro lavoro incida. L’engagement va costruito, giorno per giorno”.

L’attività di engagement è continuativa: una volta a settimana la manager si riunisce con il personale del suo staff, compresi i capi servizio, e una volta soltanto con il gruppo ristretto dei tre dirigenti di servizio.

Talent retention: nelle PMI è più problematica

Il caso di Istat spicca per la numerosità del suo dipartimento IT. Nelle aziende medio-piccole, però, le funzioni IT sono spesso racchiuse in team di 2 o 3 persone, incluso il CIO, e buona parte del lavoro viene svolta da consulenti esterni e fornitori. È un assetto a cui i Chief Information Officer delle PMI si sono abituati, dividendosi tra il compito di coordinare le varie risorse distribuendole sui diversi progetti, e il lavoro IT vero e proprio che, almeno in parte, continuano a svolgere personalmente. L’esternalizzazione in cloud è un ulteriore supporto. Ma non è la condizione ideale: i CIO vorrebbero avere più competenze interne, anziché dipendere dai partner, per riuscire a controllare più da vicino i prodotti dei fornitori, per liberarsi dalle mansioni tecniche e concentrarsi su quelle di progettazione.

“Attrarre e trattenere talenti è un problema: per questo si esternalizza. Scarichi la responsabilità sul fornitore e liberi risorse interne, ma col rischio di perdere know-how in azienda”, osserva il CIO di una piccola società del settore healthcare, il cui team conta 3 persone. “Al momento non abbiamo altra scelta: i talenti IT costano e non possiamo offrire gli stipendi di un grande gruppo privato. E, soprattutto, trattenere le risorse è davvero arduo. I talenti IT cambiano lavoro ogni 2 anni, tenere le persone motivate è difficile. Mi è successo diverse volte di assumere un candidato, formarlo, farlo crescere e poi vederlo partire”, prosegue il manager. “Ma, del resto, il nostro settore è altamente specialistico e le competenze necessarie sono rare: c’è una guerra tale per accaparrarsi i talenti che io stesso ho avuto l’occasione di sottrarre una persona alla concorrenza, e l’ho fatto”.

“Le sirene del mercato sono allettanti: la caccia ai talenti è sempre aperta e le migliori risorse IT sanno che la domanda è alta”, evidenzia Emanuela Pignataro, Head of Business Transformation & Head of Execution di Cegos Italia.

Il settore privato riesce ad attrarre i talenti più facilmente di quello pubblico per la sua flessibilità nelle assunzioni e nei percorsi di carriera. La PA, tuttavia, ha alcune unicità che possono gratificare i talenti.

“Il settore pubblico offre qualcosa che nel privato è più difficile trovare: l’opportunità di fare ricerca, esplorare e approfondire temi su cui le aziende private spesso non investono perché non trovano profitto”, afferma Colasanti di Istat. “Il pubblico ha, in ultima analisi, il bene della collettività come missione e può permettersi investimenti a lungo termine: questi sono valori che distinguono la PA, nei quali io credo”.

La formazione fidelizza le risorse

Per far fronte alle sfide della propria organizzazione, i CIO danno priorità all’assunzione di nuovi profili IT e alle attività di formazione dei propri team, secondo il Barometro internazionale di Cegos: l’offerta di reskilling e upskilling è un modo per superare le difficoltà di attrazione e fidelizzazione dei talenti.

“Il mercato è competitivo”, sottolinea Pignataro di Cegos Italia. “Per trattenere i talenti bisogna avere barriere all’uscita: se il datore di lavoro crea un ambiente stimolante, gratificante e con sufficienti benefit, è meno probabile che le persone cerchino altre opportunità o si lascino catturare dalla concorrenza. Per esempio, molti lavoratori sentono di essere gravati da troppi compiti che non riescono a sostenere da soli: si tratta di persone con le competenze più preziose, ma che spesso lavorano senza grande supporto. In questi casi, se l’azienda spende per formare o inserire nuove persone che danno un sostegno a queste persone, creano una rassicurazione che, a sua volta, genera fedeltà: il datore di lavoro riconosce che c’è un problema e si occupa di risolverlo. La fidelizzazione passa anche per i segnali di attenzione ai dipendenti, come la formazione e, in generale, l’investimento. Già oggi in Italia il 77% delle aziende offre corsi di formazione ai propri team IT”.

Infatti, Colasanti di Istat è una convinta sostenitrice della formazione continua, il life-long learning, e al bagaglio personale di esperienze che portano “equilibrio e capacità di gestione”. Lei stessa ama studiare, è una matematica, algebrista; all’inizio della carriera ha lavorato come programmatrice e ha uno sviluppato profilo tecnico, ma ha poi investito nella sua formazione con master in materie diverse, dalla governance IT, alle scienze comportamentali, fino alla privacy. Sui corsi di formazione per il personale IT la CIO non dispone di un ampio budget. Tuttavia, cerca sistematicamente soluzioni a fronte di richieste motivate del Personale.

“In questi casi, però, voglio un impegno serio”, chiarisce Colasanti: “L’ente investe e il corso deve dare un risultato. La formazione che incoraggio di più, al momento, è quella in cybersicurezza. Certo, un budget più alto sarebbe utile, soprattutto per una materia in continua evoluzione come questa”.

La leadership del CIO

I CIO riconoscono anche l’importanza di seguire da vicino le persone, responsabilizzandole e dando loro un ruolo preciso e rilevante che esalti la motivazione. È fondamentale anche collaborare con la funzione HR per elaborare strumenti per il welfare e per il wellbeing.

Secondo lo studio di Gi Group, i fattori che i candidati IT in Italia considerano prioritari per scegliere il datore di lavoro sono la retribuzione (60%), l’offerta di lavoro in modalità ibrida (38%), un adeguato work-life balance (32%), la possibilità di ricoprire ruoli che non comportino un elevato livello di stress (24%) e le opportunità di avanzamento di carriera e crescita professionale (24%). 

Ma c’è un altro aspetto che aiuta a risolvere l’annosa questione della gestione dei talenti: i Chief Information Officer devono riconoscere maggiormente il ruolo della loro leadership. Al momento i Direttori IT italiani lo collocano in fondo alle loro qualità chiave: nello studio di Cegos, vengono prima l’expertise tecnica (56% delle risposte), la visione strategica (52%) e la capacità di innovazione (45%), mentre la leadership ha raccolto il 42% delle risposte. Eppure, la leadership del CIO è la base fondante, anche quando le sue scelte vanno “controcorrente”, come nel caso di Colasanti sullo smart working.

“Io credo molto nella presenza fisica sul luogo di lavoro”, conclude Colasanti. “Istat ha una lunga tradizione di applicazione del telelavoro, attua lo smart working e tutti possono accedervi, se lo desiderano. Io, personalmente, preferisco la presenza in ufficio, ma rispetto la necessità di conciliare vita privata e lavoro, e non ho obiezioni nei confronti del lavoro agile. A titolo personale non ho firmato il contratto di smart working e sono in sede tutti i giorni. I colleghi sanno che mi trovano qui”.

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